Non so esattamente perché, ma ci sono dei meandri del mio archivio fotografico che ho pudore, se non timore, ad aprire. Non tanto perché le immagini non siano valide (non lo sono), quanto per quello che le immagini raccontano e per come io vedo quei racconti oggi.
Ieri ho visto un video di Peter McKinnon, una persona che ammiro davvero tantissimo dal punto di vista professionale, ma davvero mi ha fatto sentire come se appartenessimo a due specie diverse.
Loro sono gli Eloi, mentre io faccio parte dei Morlocchi. Loro eroi senza frustrazioni, amici senza discussioni, asciutti, pettinati, inseriti in un flusso temporale a se stante. Io antieroe sovrappeso pieno di timori e ripensamenti, rimpianti e speranze minori.
Questi racconti fatti di qualunque cosa tranne la malinconia e l’errore mi fanno sentire a disagio anche se so benissimo che sono solo fiction. Non riesco comunque, trascinato come sono dallo storytelling al limite della perfezione di McKinnon, a non fare il confronto con la mia vita e sentire comunque uno scollamento
Ad ogni modo, lasciamo la Dope Squad dove sta e veniamo al punto.
Il fatto è che ho trovato in un mercatino delle pulci di Berlino un album fotografico appartenuto a chissà chi. L’unica cosa che so è che racconta le vacanze sulla neve, nell’allora Cecoslovacchia a Černá Hora, di (una famiglia?) delle Germania dell’Est.
Era il 1956
Dico famiglia, ma non ne sono sicuro. Dalle immagini è difficile capire se la persona che le ha scattate fosse lì per conto suo oppure no. Ci sono foto di gruppo, qualche fugace figura intera in lontananza, ma come faccio a saperlo con certezza?
Guardando queste immagini d’autore ignoto, riuscendo solo in parte ad intuirne il contesto, considerando la narrazione che è sempre stata fatta dell’est filosovietico degli stati cuscinetto e del Patto di Varsavia, tutto quello che percepisco è un’infinita tenerezza e commozione nel vedere come chi ha creato questo album con la copertina rossa abbia tentato, anche con buon gusto, di abbellirlo, di impostarlo in modo da avere un ricordo di un periodo di svago che fosse bello, leggero, rassicurante.
La cupezza marxista che ci è stata insegnata, per quanto reale, sembrerebbe non esistere in queste immagini. O almeno… io credo che l’autore abbia cercato di rendere bello quel poco che aveva, quella settimana bianca del 56.
Che presuntuoso che sono! Come se i bisogni e le ambizioni che ho io fossero diversi da quelli che avrebbe potuto avere una persona di settant’anni fa che viveva in un posto che noi occidentali dovevamo per forza di cose immaginare come tetro.
Tetro e basta.
Siete d’accordo con me che questo mio modo di vedere è solo ed unicamente frutto di una percezione che mi è stata imposta dai quarant’anni di democrazia occidentale durante i quali ho (PER FORTUNA) vissuto? Capite bene che io ora sto guardando i ricordi di qualcuno che non ho mai conosciuto, di cui non so nulla di nulla, nada, nothing, nichts, eppure mi permetto di averne un’opinione a riguardo.
Me lo permetto perché vedo delle fotografie e perché queste fotografie in qualche modo devono essere state raccolte in una certa realtà in un determinato momento e quindi per forza di cose devono far parte di una linea temporale alla quale naturalmente devo dare un senso.
È un passaggio automatico. Se non conosco il contesto reale di una fotografia allora il mio cervello ne inventerà uno con gli elementi che ha a disposizione.
Eppure traspare, a mio avviso, una grande malinconia. Poche persone. Pochi sorrisi. Un biglietto singolo della seggiovia. Una grande mensa nell’albergo, un gruppo di persone in posa in un paesaggio più che innevato, in un ambiente che oggi non esiste nemmeno più per via dei cambiamenti climatici.
Di quella Cecoslovacchia oggi non resta più nulla se non i miei pregiudizi.
Se siete mai stati a Praga sembra che sia stato fatto di tutto pur di cancellare la storia di cinquant’anni di ‘900. Lo dicevano anche gli Offlaga Disco Pax in una bellissima e malinconica canzone intitolata Tatranky
Quindi adesso sono seduto sul divano a scrivere queste righe e ho qui sulla sinistra una scatola con delle stampine (in realtà dei provini a contatto da una 6x6) che rappresentano ricordi che io ho vividi nella mente ma che nessuno, a parte me e le poche persone che fanno davvero parte della mia vita, può davvero indovinare.
In particolare ci sono queste fotografie che ho scattato il giorno in cui ho ricevuto nella cassetta della posta la mia prima fotocamera a medio formato: la celeberrima Yashica Mat 124
Sono fotografie che rappresentano mio suocero o “il mio secondo papà” come l’ho sempre considerato io finché è stato tra noi. Quando è mancato, due anni fa, avevo quarant’anni e per metà della mia vita è sempre stato una presenza fissa e importante.
Aveva un carattere stranissimo. Completamente senza filtri era una persona che diceva sempre chiaro e tondo quello che pensava e dietro la sua burbera altezza era in realtà molto autoironico e amante del buon umore tanto che a volte lo si vedeva che si sforzava di non farsi beccare a ridere sotto i baffi per una sua stessa battuta di spirito detta con l’aria dell’indifferenza.
Queste immagini sono l’emblema di quel suo essere contemporaneamente austero e spiritoso. Aveva un esame strano da fare. Gli avevano applicato tutti dei sensori sul volto e sul petto (ora non ricordo più perché) e girava per casa con nonchalance ma sotto sotto stava sbellicandosi dalle risate.
Mi arriva la 124G, come dicevo, e quindi la prima cosa che faccio è cercare qualcosa da fotografare per testarla, per capire come funziona il medio formato. Spoiler: avevo davanti una gran bella curva di apprendimento. Giudicate voi.
Fotografo quindi un paio di scarpe, una scarpa con una Pentax MX e poi lo vedo passare e mi viene in mente immediatamente qualcosa stile Friedrich Wilhelm Murnau, uno di quei mostri grotteschi ripresi dal basso.
Lui chiaramente non aspettava altro, ma non mi avrebbe MAI chiesto di fargli una foto. Ecco allora che faccio finta di avere avuto io l’idea e inizio a scattare qualche foto dal basso usando un asse di legno come sfondo chiaro e testo alcune angolazioni.
Rideva come un matto e pure io. Un minuto dopo mi avrebbe detto che comunque la vita non aveva senso e che tutto sarebbe andato male, perché il pessimismo realista faceva parte del suo essere e del suo personaggio, ma in quel momento ci siamo divertiti come bambini.
Ecco. Se qualcuno dovesse ritrovare queste fotografie in un mercatino: come le leggerebbe? Cosa capirebbe di Lino, il mio secondo papà? Cosa gli avrà raccontato il suo mondo del mio mondo? Capirà la goliardia di questi scatti? La assocerà al soggetto oppure al fotografo? Capirà chi era Lino per me? Forse non da queste foto.
In questa scatola di provini ci sono tante domande per l’uomo del futuro.
Non che serva a nulla chiederselo, in realtà. Una volta che siamo andati la gente pensi pure quello che vuole, ma comunque è interessante immaginare la propria vita con gli occhi di un eventuale postero che vive una vita completamente diversa.
Sapete che vi dico? Quasi quasi spero che qualcuno le trovi queste foto tra settant’anni e questo qualcuno trovi anche tutte le altre foto di Lino e che si faccia un suo film espressionista in testa.
Nel frattempo noi, se tutto va bene, ci vediamo sui canali che conoscete bene.
Haku
Si, sono d’accordo con te che questo tuo modo di vedere è solo ed unicamente frutto di una percezione che ci è stata imposta dai quarant’anni di "democrazia" occidentale.
Ma allora perché quel "per fortuna" tra parentesi e in stampatello maiuscolo?
Ha il sapore del sangue in bocca rispetto alla credibilità del racconto e del tuo percepire il mondo.